Woke is dead

Woke is dead

La sostenibilità ambientale ha stufato?

 

Oggi vi rubiamo qualche minuto, se vi va, per parlare di qualcosa di un po’ diverso dal solito. Niente shampoo e creme oggi. Oggi proviamo ad andare un po’ più in profondità. Non sappiamo se abbia senso, non sappiamo se l’esperimento si ripeterà, se gradirete oppure no, però lo riteniamo un passo necessario per farvi capire chi siamo e dove andiamo.

 

 

Il mondo che cambia

 

In questi giorni, dopo le decisioni di Zuckerberg riguardo la gestione delle piattaforme social, dopo le scelte di molte multinazionali, come indiretta conseguenza del risultato delle elezioni americane, a detta di tutti, è evidente che il mondo stia virando decisamente in una direzione ben precisa. E a cascata vira anche tutto il resto: i social, le aziende, il mercato.

 

Greenwashing e pinkwashing

 

Pare quindi chiusa la parentesi che vedeva le grandi aziende, ma poi per forza di cose anche quelle più piccole, cercare di dare una veste più inclusiva, più ambientalista, più egualitaria al proprio business. Ed ora che il clima politico glielo consente, quei neologismi astrusi come “greenwashing”, “pinkwashing”, etc prendono un significato molto più concreto: le politiche ambientali, il carbon neutral, l’inclusività nei linguaggi e nei consigli di amministrazione altro non erano se non maschere del caro, vecchio, solito capitalismo. Servivano, per farla breve, a vendere di più. Adesso che la musica è cambiata e il mercato non sembra più interessato a queste tematiche, le grandi aziende (e così faranno anche le piccole) possono togliere la maschera e tornare ad essere se stesse. Alcuni di noi avevano già capito che si trattava di una semplice mossa di marketing, altri invece si erano illusi che fosse solo il primo passo verso un cambiamento più profondo della società.

 

La sostenibilità è stata solo una moda?

 

Non vi dico in quale gruppo eravamo noi, non ha importanza. Posso dirvi che nel nostro piccolo anche noi ci siamo accorti negli ultimi anni che il vento stava cambiando. Se quando abbiamo messo piede sul mercato il tema della sostenibilità era centrale per molti, con il periodo COVID che sembrava aver smosso coscienze, il 2024 ci ha fatto capire che parlare di ecologia, ambientalismo, cambiamento climatico non ha più lo stesso effetto. Sarà che la disillusione si è fatta largo tra le persone, sarà che la quotidianità ci ha ri-inghiottiti nel suo turbine, di fatto ormai a pochi interessa comprare un prodotto perché plastic free o perché è stato prodotto in modo etico. Per vendere i nostri prodotti questo non funziona più. O meglio, la bolla interessata a uno stile di vita sostenibile esiste ancora ma, invece di crescere, è rimasta la stessa o è addirittura diventata più ristretta.

 

 

Lo stesso si può applicare a chi parla di diritti LGBTQ+ o di femminismo. Anche sui social l’aria è cambiata: gli influencer stanno cambiando argomenti e vale per molti di loro lo stesso discorso che abbiamo fatto per le aziende. I temi progressisti altro non erano che un modo per posizionarsi, per fare engagement e accaparrarsi adv. Niente di male, tutti dobbiamo campare di qualcosa.

 

Cosa è successo e cosa è cambiato?

 

La domanda che ci siamo fatti è: come è successo? Dove si è sbagliato? Ci siamo confrontati anche con altri attori del settore e siamo arrivati ad alcune conclusioni che vorremmo condividere con voi. Perché su queste si baserà, d’ora in poi, la nostra comunicazione ma soprattutto il nostro operato.

 

 

 

Dopo che l’attivismo di Greta Thurnberg aveva acceso una scintilla, soprattutto tra i giovani, qualcosa lungo il percorso si dev’essere guastato. La comunicazione sulla sostenibilità è diventato un susseguirsi di giudizi, un settaggio di standard irraggiungibili che tendeva a colpevolizzare e non a includere. Ma l’inclusione nel discorso invece è la base di tutto: che tu sia un vegano intransigente o un cacciatore che mangia solo le sue prede e non supporta gli allevamenti intensivi, il tuo punto di vista, per quanto magari diametralmente opposto, è ugualmente importante.

 

 

La sostenibilità ha finito per aggrovigliarsi su se stessa, attaccando i suoi stessi sostenitori. Non c’è stato spazio per le diverse voci e le persone, anche in buona fede e con tutta la buona volontà, non si sono sentite accolte ma giudicate. Quindi hanno finito per allontanarsene.

Aggiungiamo poi come il mercato si sia saturato: “sostenibile”, “ecologico” e “green” sono apparsi sulle etichette di qualsiasi prodotto minando profondamente il significato di queste parole. Il consumatore si è stufato. E ha smesso di crederci. Perché sostenibilità non può voler dire consumare, comprare ancora e di più. Anzi, sostenibilità in definitiva significa una cosa sola: comprare meno.

Questi sono gli errori secondo noi più gravi: la sostenibilità per com’è adesso gira intorno al senso di colpa e al consumismo. Isola e non coinvolge. Non c’è da stupirsi che nessuno la trovi allettante. Non dovrebbe riguardare il perfezionismo ma il progresso. Ogni contributo dovrebbe essere accolto perché ogni contributo conta.

 

 

 

E in questo i brand hanno un ruolo importante. Possono riaccendere nelle persone l’entusiasmo per la sostenibilità, offrendo soluzioni che davvero funzionino e che davvero costituiscano un passo in avanti verso un futuro più sostenibile. Meglio pochi prodotti ma davvero funzionali, meglio un business basato sulle persone e non sul marketing spinto, sulle stesse dinamiche del capitalismo tradizionale. La soluzione non può passare per il problema stesso: non si diventa sostenibili comprando cose. Ficchiamocelo in testa e lavoriamo insieme.

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